Le buone pratiche nel lavoro con bambini e giovani con DSA
I. Una pratica che conviene al soggetto
L’obbiettivo fondamentale di questo seminario è partire dall’esposizione delle diverse pratiche ed esperienze che si svolgono nelle organizzazioni partecipanti per definire la specificità del loro approccio clinico e per stabilire gli elementi, comuni o specifici a ciascuno, che potrebbero essere considerati buone pratiche nel lavoro con bambini e giovani con DSA.
Allo stato attuale delle conoscenze e dei risultati della ricerca scientifica riguardante l’autismo, si consiglia di prendere, nel lavoro con bambini e giovani con DSA, una posizione prudente e scommettere su risposte consensuali tra i professionisti e con le famiglie. Dopo più di 50 anni di ricerca, la conoscenza – sia sulle cause, sulla presentazione e l’evoluzione dei sintomi, come sui trattamenti – rimane molto limitata. Questa precauzione e quest’impegno per il dialogo non sono in contradizione con il progresso della scienza, i cui lavori ogni volta si orientano di più verso le causalità multifattoriali – genetiche, epigenetiche, biologiche, ambientali – e su espressioni diverse caratterizzate dalla plasticità e dalla singolarità.
Rapporti recenti sulle “buone pratiche cliniche” in materia di autismo, notano che attualmente non esiste una “buona pratica” riguardante un tipo di sostegno o trattamento psicosociale dei bambini con DSA. A differenza del trattamento di alcune malattie che rientrano nel campo della medicina, attualmente non esiste una “prova” scientifica sufficiente per raccomandare a tutti i bambini con DSA un trattamento in grado di garantirne l’efficacia. Analogamente, gli studi realizzati fino ad oggi per dimostrare l’efficacia di un tipo di trattamento soffrono di una serie di distorsioni metodologiche che limita la rilevanza dei suoi risultati.
Come punto di partenza, l’approccio clinico delle organizzazioni partecipanti condivide una posizione etica che è alla base delle loro strategie terapeutiche, la quale poggia sulla nozione che il bambino autistico è un “soggetto”, che implica un rispetto assoluto per la sua singolarità. Si tratta, dunque, di un approccio individuale, caso per caso, basato su un accompagnamento e una collaborazione tra il bambino e l’adulto tenendo conto delle preferenze, delle scelte, delle invenzioni e delle soluzioni trovate dal bambino stesso.
Questo rispetto e questa presa in considerazione della singolarità di ciascun bambino e di ciascun operatore, intese come il tratto di uno stile personale, è il motore del lavoro con il bambino ed è anche il nostro punto di partenza per elaborare quelle che potrebbero essere le buone pratiche, in quanto pratiche che siano adatte ad affrontare ciò che è in gioco nel bambino con autismo.
Alla luce di questo approccio di partenza, lavoreremo sui diversi aspetti che possano diventare buone pratiche nell’approccio ai bambini e ai giovani con autismo e alle loro famiglie: la funzione dell’accoglienza dei bambini e dei giovani autistici nelle istituzioni come condizione preliminare ad ogni possibile trattamento; l’importanza e la difficoltà della diagnosi precoce; le modalità di trattamento dalla prima infanzia e la continuità della cura; l’attenzione al momento cruciale dell’adolescenza in questi bambini; le strategie per la età adulta; il lavoro con i genitori in ogni momento, in ciascuna delle diverse età della vita.
II. Difficoltà e rischi nello stabilire ciò che può essere una buona pratica nel lavoro con esseri umani, che siano autistici o meno.
L’utilità, la necessità e l’importanza di certe procedure di verifica applicate ai processi di fabbricazione e produzione o al prodotto finito, nel campo dell’industria ed in altri campi simili dell’attività umana, è fuori ogni dubbio. Per esempio, le determinazioni analitiche di microbiologia, di materiali inorganici, ecc., nei processi di elaborazione di alcuni alimenti sono procedure imprescindibili perla loro praticabilità. Se si aggiunge a questo la necessità di stabilire meccanismi di controllo che assicurino l’applicazione regolare di queste procedure, stiamo descrivendo un aspetto di ciò che viene denominato gestione della qualità applicata all’industria dell’alimentazione.
La metodologia di queste procedure di determinazione microbiologica possono applicarsi senza problemi ad altri campi, per esempio, al controllo dell’asepsi in una sala operatoria o del materiale chirurgico di un ospedale, ma se cerchiamo di applicarla ad alcuni ambiti della pratica sociosanitaria o educativa, risulta semplicemente impossibile e, quando quest’impossibilità viene forzata, il risultato è l’impostura o la frode.
La forzatura nell’applicazione della metodologia propria del discorso del controllo della qualità e delle sue certificazioni a certi processi e metodologie di intervento in ambito sociale, sanitario e educativo, barando, cerca di evitare, di schivare questa difficoltà. E questo accade dalla prima fase, nella quale si tenta di affrontare la difficoltà stessa di stabilire criteri e indicatori per la valutazione.
Questa tendenza e questa standardizzazione forzata, che si cerca di imporre autoritariamente come se fosse l’unica accettabile, presuppone una concezione di ciò che si vuole valutare e sottomettere al controllo di qualità, una concezione dei rapporti umani, del sociale, del modo in cui compaiono nel soggetto, dai primi momenti della vita, i suoi movimenti in rapporto all’ambiente, ai suoi simili e al mondo circostante. Una concezione della condizione umana e della sofferenza umana.
Le relazioni umane hanno una differenza qualitativa fondamentale rispetto ad altri sistemi di relazione che conosciamo. All’interno di ciascuna specie e tra le diverse specie, questa caratteristica distintiva è la variabilità, la diversità, la spontaneità e la creatività, la capacità di improvvisazione e d’innovazione. Questi tratti poggiano proprio sull’imprecisione, sullo sfasamento, sul malinteso strutturale proprio del nostro sistema di comunicazione: il linguaggio umano nel senso più ampio, in quanto implica il corpo del parlante.
Parlare di buone pratiche nel lavoro con bambini e giovani che presentano delle difficoltà riguardanti i cosiddetti DSA vuol dire, per noi, opporre resistenza alla spinta, sfacciata e minacciosa, verso una pratica devastante che ignora tutto ciò che, della sofferenza, non si incastra nelle rigide e rozze caselle in cui si cerca di collocarla sotto la specie della disabilità o del disturbo. Significa indagare, aggiornare, mettere alla prova e promuovere pratiche che, nel rispetto delle condizioni di base in cui l’umanità si può manifestare, siano adeguate alle difficoltà che presentano questi bambini e giovani.
Le organizzazioni e le istituzioni che partecipano a questo seminario hanno sviluppato e implementato, per diversi decenni, una serie di pratiche che mostrano rispetto per il modo particolare in cui ogni bambino risponde alle sue difficoltà; nello stesso tempo queste pratiche risultano adeguate per il loro trattamento e , dunque, anche adeguate allo stabilimento di relazioni terapeutiche; sono fruttifere nel lavoro con le loro famiglie (madri, padri, fratelli, nonni, talvolta); adeguate a promuovere l’interesse a conoscere e a imparare, anche per facilitare che si stabiliscano e mantengano le relazioni educative con gli insegnanti, con gli educatori e con chiunque possa sostenere con loro una posizione di saper-non-sapere.
La verifica su ciò che è più conveniente e migliore, l’interesse a decifrare come è fatto e a stabilire come farlo in modo corretto e pertinente è un interesse proprio della configurazione umana, così caratteristico come il rigore degno di un tale compito. Tale rigore dovrebbe impedire di prendere certe scorciatoie, in questo caso, quella di pretendere di convertire la nostra pratica nelle istituzioni in una questione da manuale, secondo la tendenza che Jacques-Alain Miller segnala come la passione americana nel “how to”: “ogni cosa al mondo, ogni attività nel mondo rischia di avere un “how to”, come si fa? … si può avere un come guidare una macchina, ma da qui a sapere come comportarsi con gli uomini, con le donne, con i bambini, con le stelle, con se stesso, con il corpo …” Questa differenza, quel salto, è ciò che abbiamo cura di non forzare, di non nascondere, lì dove il discorso della gestione della qualità, con la sua proposta di formalizzazione generalizzata, non è vero che voglia sapere, ma vuole imporsi.
[1] Vedi il lavoro realizzato presso Antenne 110
[2] Miller, J.A., Estructura, desarrollo e historia. Gelbo. Bogotá 1999.