Uno spazio singolare per il trattamento dell’autismo

 

Pedro Gras. Direttore

“Torreón”. Spazio di accoglienza e trattamento per bambini e famiglia.

 

Maria (nome inventato) è una piccola bambina autistica di 6 anni che quando pronuncia una parola cade. È l’ora di andare e scende in ascensore con Teresa, operatrice del laboratorio Biblioteca. Al piano terra c’è la confusione tipica del ritrovo tra i genitori e i bambini dopo le due ore e mezza di attività. Nonostante le parole gentili di Teresa, Maria non esce dall’ascensore. 

Non è che la bambina manifesti di non voler uscire, se non che si mostra “inchiodata”, paralizzata, e non risponde alle parole di Teresa. 

Un altro membro dell’equipe che assiste alla scena interviene dicendo con molta enfasi all’operatrice: “Ma Teresa, che ci fai ancora in ascensore? Non lo sai che Maria ha il diritto di andar via tranquilla con sua madre?” 

Teresa si scusa per il suo errore assumendo teatralmente, ma con serietà, quanto gli è stato detto; quindi, la bambina esce da sola dall’ascensore e può ritornare con sua madre senza difficoltà.  

In linea con quello che Jacques-Alain Miller ha chiamato “pratica in diversi” e che lo psicoanalista Antonio Di Ciaccia ha creato nell’istituzione belga Antenna 110, questa piccola vignetta del funzionamento quotidiano ci serve per mostrare come si lavora con questi bambini al Torreón.

Jacques Lacan ci ricordava che “Nessun soggetto può esistere senza l’Altro”, che vuol dire che non c’è soggetto dell’inconscio senza l’Altro. Questo ha per conseguenza che non c’è soggetto senza sintomo.

Così, un’istituzione orientata dalla “pratica in diversi” è un’istituzione che in primo luogo si caratterizza nel non considerare il sintomo come deficit, rinunciando ad esercitare qualsiasi tipo di violenza o forzatura.

Consideriamo che questi bambini con i loro giochi di alternanza, con le loro stereotipie, ecc., cercano continuamente di trattare il loro Altro, e allo stesso tempo pretendono un’iscrizione nel reale per supplire alla funzione simbolica che fallisce. Il problema è che non possono realizzare questa operazione da soli. Perché ciò sia possibile è necessario che i bambini incontrino qualcuno che non cessi di farsi loro partner per la realizzazione del loro atto.

Jaime (nome inventato), autistico di 5 anni, fa girare senza sosta un disco della psicomotricità. È una stereotipia con la quale può passare molto tempo. Conosce e apprezza gli operatori che lavorano nel laboratorio di gruppo di gioco terapeutico. Di recente uno di loro ha detto: “Gioco del disco!”, dando uno schiaffo al disco di Jaime e dando inizio a un gioco dove tutti seguono il disco per terra passandoselo l’un l’altro.

Jaime, che in un primo tempo è sorpreso dall’atto dell’operatore, alla fine si unisce al gioco. Dopo alcuni giorni in cui si ripete questa operazione, Jaime prende il disco, guarda l’operatore del laboratorio e grida: “Gioco del disco!” invitando tutti a giocare con l’oggetto che prima lo isolava nelle sue stereotipie. 

Quindi, visto che con il bambino autistico non sappiamo né quando né come ci sarà l’occasione, tutti i membri dell’equipe devono sempre essere nella posizione di occupare il luogo di partner del bambino. Cioè, nella posizione di farsi associare dal bambino per il trattamento del suo Altro, trattamento che gli permetterà di prodursi come soggetto.

Inoltre, visto che si può creare una fissazione transferenziale molto intensa che sarebbe un ostacolo, è necessario che l’istituzione promuova una diffrazione e una moltiplicazione del transfert verso tutti i membri dell’equipe che lavorano con il bambino.

Altra caratteristica importante da tener conto è che per questi bambini l’Altro è reale e viene vissuto come persecutorio. Nel voler prendersi cura di loro si pone la questione di come situarsi per non incarnare questo Altro persecutorio.

Gli adulti che si occupano di questi bambini devono essere disposti a incarnare un Altro del bambino, che sia docile, incompleto e regolato. E occorre dirlo, ciò è da fare in modo molto teatrale. Teresa, quando il suo collega è intervenuto rimproverandola, si è prestata a occupare il luogo dell’Altro che impediva a Maria di uscire dall’ascensore. Ammettendo il suo errore si presenta come Altro barrato, limitato e soprattutto regolato. L’effetto è immediato.

Il punto non è che Teresa sappia come far uscire Maria da quella situazione, incarnando un Altro del sapere. Il bambino autistico cerca un partner che non è in posizione di sapere, così che chi interviene deve “sapere non sapere” quello che conviene al bambino ed essere in ogni momento pronto all’appuntamento che dobbiamo offrirgli.

Carlos (nome inventato), di 9 anni, non sopporta il tempo d’attesa per accendere il computer e si angoscia. Sappiamo che è importante che Carlos possa sopportare di aspettare senza angosciarsi, ma occorre dare un luogo a questa esigenza personale che vive e non capita solo con i computer. Assieme all’educatore si rivolgono molto indignati al Direttore per presentare un reclamo formale sull’insopportabile che comporta questo tempo d’attesa; l’educatore spiega che questo non ha diritto di accadere e che hanno pensato di cambiare i computer che fanno aspettare e danno fastidio.

Il direttore, che è investito con il titolo di massimo poter per il posto che occupa, si presenta anche come un Altro incompleto e risponde – molto teatralmente – che in teoria non è giusto che Carlos debba sottostare a questa esigenza fastidiosa… però non può prendere una decisione così importante, ma comunicherà con forza questo problema alla riunione di equipe, affinché sia trattata e risolto questo problema così fastidioso per Carlos. Poi, il bambino completamente pacificato, può ritornare alla sua attività nel laboratorio.

Non solo occorre stare in un’attesa attiva ma bisogna anche far funzionare un Altro del linguaggio tale che possa togliere il bambino dai momenti di angoscia.

Leo (nome inventato), di 9 anni, se la passa male nel laboratorio di arte. Cerca di fare disegni che suono fuori dalla sua portata. Il fatto di non riuscire a farli lo dispera e lo fa star male. Sono state portate a termine diverse manovre per alleggerirlo dall’esigenza di perfezione. Gli è stato proposto di fare dei disegni ricopiando quelli scaricati dal computer, ricalcandoli sul tavolo. Inoltre gli è stato proposto che lui stesso dia istruzioni all’operatore sul come fare il disegno. Oppure è stato incaricato di mettere un po’ di musica, di cui è un incredibile esperto per la sua età. Ma, sebbene sia sollevato, non cessa di insistere sul non riuscire a farlo. Fino a quando un educatore del laboratorio introduce il significante “bozza” e gli spiega come gli artisti, prima di arrivare all’opera definitiva, fanno delle bozze che non sono perfette, che anche le bozze sono espostile nei musei, e aggiunge che il disegno che Leo sta facendo: “Può essere una bozza”.

A partire dell’introduzione di questo significante, Leo non solo ammette delle imperfezioni nei suoi disegni, ma quando ora qualcosa non gli viene con la precisione che prima esigeva, invece di cancellare risponde: “Non lo cancello, è una bozza!”.

Come ci indica Bernard Seynhaeve, ex-direttore di Le Courtil – istituzione belga dove si lavora con la “pratica in diversi” – si tratta di inventare modi inediti di dire: un’istituzione che lavora con la “pratica in diversi” è “un’istituzione nella quale, prima di imporla ai bambini, gli educatori stanno sottomessi ad una legge; un’istituzione dove gli educatori sono determinati e orientati, perché sanno che non sono onnipotenti.”

Tradotto da Omar Battisti

Revisione di Adrian Isabel Capelli